Prima hanno incrociato le braccia, poi sono finiti in cassa integrazione. L’autunno caldo dell’industria italiana si apre con lo sciopero dei lavoratori e la crisi della Sfc Solutions che ha spedito temporaneamente a casa 317 lavoratori torinesi. L’azienda, parte dell’indotto che rifornisce Stellantis, ma anche altri produttori come Volkswagen, produce guarnizioni per abitacoli di automobili, camion, furgoni e trattori.
“Si tratta dell’ennesimo caso di componentistica del settore automotive che entra in crisi. La nuova proprietà si era impegnata a tenere gli stessi livelli produttivi e occupazionali, la cassa integrazione è stata vista come un venir meno a questi impegni. Non siamo ancora in una crisi conclamata, ma di certo è un campanello d’allarme” spiega a Today.it Monica Canalis, vice Presidente della commissione industria del Consiglio Regionale del Piemonte. E di certo non è il primo.
Perché la crisi dell’auto tedesca potrebbe costarci caro
Tra gennaio e maggio 2024 la produzione del settore della componentistica auto è scesa del 18 percento, mentre le ore di cassa integrazione erogate per i lavoratori sono salite in tutta Italia. E oggi la grande paura è che la “locomotiva d’Europa” possa fermarsi.
A influire sulla recessione che potrebbe abbattersi sulla Germania c’è la crisi delle vendite dell’industria automobilistica. Una flessione che interessa tutto il Vecchio Continente, con Stellantis che fa registrare nel mese di Agosto un calo del 32 percento delle vendite rispetto all’anno precedente. E che in Germania sta già provocando conseguenze concrete. Volkswagen ha già annunciato un piano di ristrutturazione che mette a rischio migliaia di posti di lavoro e almeno due centri produttivi e Audi è intenzionata a chiudere il suo stabilimento di Bruxelles.
A influire sulla frenata c’è soprattutto la scommessa dell’elettrico che, per molte case automobilistiche tedesche si sta rivelando più difficile del previsto, e che ha portato aziende come Porsche e Mercedes a rivedere a ribasso i loro piani per la transizione.
Dentro la crisi dell’auto elettrica
Ma la crisi potrebbe presto costare caro anche al nostro Paese: la Germania è per le nostre imprese del settore un partner essenziale. Nell’industria della componentistica auto le esportazioni verso Berlino valgono 5,19 miliardi di euro e costituiscono oltre il 20 percento del nostro export.
“La vicenda di Volkswagen rischia di essere un terremoto per tutta l’Europa, che in Italia si somma al problema di Stellantis per cui la maggior parte dei grandi gruppi di componentistica del nostro Paese lavorano in regime di mono-comittenza. Parliamo di un’azienda che da anni ha deciso di disinvestire nel nostro Paese producendo sempre meno e modelli ormai vecchi” puntualizza Samuele Lodi, responsabile mobilità della Fiom Cgil.
Ma i primi segnali della crisi tedesca potrebbero avvertirsi a breve: “Il gruppo ZF, che ha anche tre stabilimenti in Italia sta avendo già ripercussioni dirette. In Germania prima dell’estate ha annunciato 14mila esuberi e in questi giorni è toccato allo stabilimento in provincia di Ferrara che ne ha dichiarati 65. Abbiamo segnali di sofferenza anche dalla Marelli di Tolmezzo, che lavora per Audi e che ha fatto registrare importanti cali di produzione. E c’è preoccupazione anche per Bosch – osserva Samuele Lodi, che aggiunge – i passaggi più critici potrebbero però arrivare nell’autunno e colpire particolarmente le piccole e medie imprese che lavorano su mercati di nicchia”.
E la congiuntura negativa si affaccia su una prospettiva già non esattamente positiva. Secondo un’indagine della società di consulenza AlixPartners, la transizione verso l’elettrico mette a rischio 40mila posti di lavoro nell’industria della componentistica italiana e può bruciare 7 miliardi di euro entro il 2030, con un calo della produzione di circa il 10 percento. Criticità che si abbattono su un comparto industriale che rappresenta una parte importante del nostro Pil.
Una filiera che vale 55 miliardi e impiega 166mila lavoratori
C’era una volta la grande industria automobilistica italiana. Quello che avveniva all’interno dei cancelli di Mirafiori determinava anche le decisioni che venivano prese nei palazzi romani e la nostra industria aveva in Torino il suo centro nevralgico. Poi Fiat è diventata prima Fca e oggi Stellantis e la fabbricazione di veicoli è calata vertiginosamente. Oggi di quella storia rimane un indotto aziende che produce componenti per auto e mezzi di locomozione e che rimane uno dei cuori del sistema industriale italiano. Il comparto conta oltre 2mila imprese, dà lavoro a oltre 166.000 persone e fattura ogni anno 55 miliardi di euro.
Così l’Italia dice addio all’industria dell’auto e a migliaia di posti di lavoro
Si compone di marchi che sono, nel tempo, diventati leader nel loro settore e che, in alcuni casi, hanno una storia secolare. È il caso, ad esempio, delle officine Egidio Brugola, fondate nel 1926. L’idea era di creare bulloni per la nascente industria meccanica: oggi l’azienda è leader mondiale nella creazione di “viti critiche” per i motori delle auto. O di Pininfarina, azienda nata nel 1930 per produrre carrozzerie per auto, oggi diventata una delle eccellenze del design automotive.
E gli esempi non sono pochi. Dalla Brembo, azienda bergamasca leader per la produzione di impianti frenanti, alla Sogefi, attiva nelle tecnologie di raffreddamento e nei motori, fino alla Pirelli e alla Marelli (ex Magneti Marelli), aziende formalmente non più italiane, ma che mantengono comunque stabilimenti produttivi nello Stivale.
“Le ripercussioni non saranno lente”: il pericolo di un deserto industriale
Ma non esistono solo le grandi realtà. Il 60 percento delle aziende che operano nel settore sono di dimensioni medio-piccole e il 45,2 percento nel 2022 era ancora a conduzione familiare. La maggior parte è concentrata in Piemonte e nel torinese, un tempo centro dell’industria automobilistica italiana. Il 30 percento di queste aziende lavora ancora con Stellantis e Iveco, ma molti hanno preso altre strade. Ed esportano principalmente al di là del Brennero.
Aprono una fabbrica per produrre auto elettriche cinesi, ma con i nostri soldi
“Grazie alla presenza delle commesse Fiat si sono sviluppate tante piccole imprese, ma in questi anni il cambiamento è stato rapido ed è accelerato dalla crisi della Germania: molte aziende lavorano con Volkswagen e altri marchi tedeschi, le ripercussioni delle crisi tedesche non saranno lente” osserva Monica Canalis.
Intanto sul tavolo ci sono già le crisi di aziende come Lear attiva nella manifattura di sedili auto e Fir Fulda, che si occupa di stoffe anche per il settore automotive. Ma le difficoltà non riguardano solo il Piemonte: ci sono preoccupazioni anche per il sito Bosch di Bari ad esempio, l’Industria Italiana Autobus a Bologna e la Denso nel chietino.
E la risposta non è solo la difesa dell’esistente: “Oggi in Italia fabbrichiamo un terzo delle auto che vengono vendute: è assurdo. Il ministro Urso dice di voler portare un produttore cinese, noi siamo d’accordo, ma ci vogliono delle garanzie per salvaguardare tutta la filiera della componentistica. Poi serve un piano industriale italiano ed europeo che va poi finanziato. Anche il rapporto Draghi parla chiaro: si deve investire, e non poco, se si vuole fare sul serio” osserva Samuele Lodi.
L’altra parola chiave potrebbe essere poi anche flessibilità produttiva. “La crisi dell’automotive non è un fulmine a ciel sereno, la prevediamo da anni: servono delle strategie di filiera e bisogna aumentare le dimensioni delle imprese, non è pensabile affrontare questa crisi con delle imprese troppo piccole. Poi bisogna orientare le industrie su altri ambiti come robotica, aerospazio e biomeccanica che sono settori in grande crescita. Gestendo solo l’esistente rischiamo di franare” rimarca Monica Canalis. La sensazione è insomma che serva un rapido cambio di rotta. Prima che l’acqua alta diventi marea.